Amelia PLATONE

REALTA’: forza e poetica

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PENNELLATE DI RICORDI
Tele, cartoni telati, assicelle di legno, rotoli di fogli di ogni dimensione, chiodi e chiodini, ganci, pennelli di tutte le forme e misure, nuovi o spelacchiati, matite, barattoli semisecchi di vinavil, martelli, tenaglie, carta gommata, stracci e straccetti, cartoncini, tutto era a nostra disposizione e poi, chiedendo, potevamo avvicinarci anche al grande vecchio cavalletto, alla tavolozza miscuglio di serpentelli colorati contorti e rinsecchiti persi in un abbraccio striato, ai tubetti di colore ad olio stremati e spremuti o nuovi in attesa.. Per noi era più normale trafficare nello studio della mamma che giocare con le bambole. Come anche era normale fare balletti e capriole nelle sale della Galleria La Giostra, sperando che non venissero visitatori, fra le opere di Menzio, Paulucci, Scroppo… La mamma che ai tempi dirigeva la Galleria ci impegnava in gare di velocità nell’imbustare o nell’affrancare gli inviti delle mostre, o ci portava con lei alla Tipografia Bona per ritirare i cataloghi o controllarne le bozze e ogni volta il vecchio proprietario ci mostrava i macchinari che giravano e restavamo incantate fra il frastuono e l’odore dell’inchiostro. Figlie di artista, o meglio figlie di Amelia Platone, donna speciale, che a dolore, fatica, delusioni riuscì sempre a contrapporre la serenità, l’equilibrio, il coraggio. Negli anni della scuola fu sicuramente un privilegio essere sue figlie e nipoti di Felice Platone, il “Sindaco della liberazione”, un Padre Costituente; Eugenia ed io ci rendevamo conto di questo alone di rispetto che ci accompagnava, ma non capivamo bene il perché. La nostra famiglia nel giro di pochi mesi era stata lacerata da gravi lutti e nel piccolo nucleo di sole donne che restava, la Mamma e la Nonna avevano smesso di parlare di chi non c’era più, quasi ad esorcizzare il dolore. Raramente venivano nominati Papà Domenico e Nonno Felice, eppur ne assorbivamo gli ideali, i valori, le passioni. Ed Eugenia ed io crescevamo serene, con la Nonna che abitava al piano di sopra che ci accudiva con bonaria severità e noi con Mamma al piano di sotto che spostavamo continuamente i pretenziosi e ingombranti mobili siciliani alla ricerca della soluzione più pratica. Tutto era scoperta e divertimento, non solo avventurarsi nello straripante studio casalingo della mamma, ma anche stare nella nostra non-cucina, dove nel frigo spento alloggiavano cordini e spaghi e altre meraviglie e nei pressi del lavandino, dentro a grosse bacinelle coperte da stracci umidi dall’odore ferroso, via via prendevano forma magiche sculture.
Così negli anni abbiamo imparato ad appendere i quadri, ad accatastarli senza rovinare cornici e vetri, perché in occasione delle mostre personali la nostra A112, comprata usata, veniva caricata all’inverosimile e partivamo cantando tutte allegre, sperando di vedere presto tanti bollini rossi appiccicati sulla cornice (ogni bollino un quadro venduto!), ma nello stesso tempo dispiaciute che i quadri preferiti sparissero da casa.
Ma la cosa più strabiliante è che questa vita particolare scorreva con gran semplicità, con una mamma che seguiva la regola di famiglia di “non disturbare e non apparire”, ma nello stesso tempo sempre a disposizione di tutti, sempre aperta al nuovo, ai giovani, alle persone fragili. Sempre attenta a noi che crescevamo e ci allontanavamo, mai trattenendoci, mai facendo trapelare le sue ansie di genitore solo.

Eugenia e Rita Castellana

Amelia PLATONE: il palpito della vita.

Immergersi nell’opera di Amelia Platone è come varcare il confine di mondi diversi che, quasi magicamente, in lei appaiono fusi e compartecipi. La magia è determinata dal connubio di due elementi che, non a caso, sono presenti nel titolo della mostra: forza e poetica. Forza è da intendersi come vitalità comunicativa delle immagini, unitamente alla potenza creativa dell’artista; poetica invece è da interpretare come il mondo intenzionale dell’autrice che si concretizza nei suoi lavori, tutti pervasi da un sincero senso di appartenenza al suo tempo e al suo spazio.
Questa appartenenza emerge con intensità grazie al sapiente uso di linee e colori, frutto dei suoi studi, ma, soprattutto della sua capacità di cogliere la profondità delle situazioni. I suoi dipinti sono, infatti, ammantati di luce, una luce che deriva dalla sua straordinaria attitudine a intuire la vibrazione del vivere nelle sue figure e nei suoi paesaggi, fino a renderli segno evidente di empatica attenzione. Il mondo astigiano e quello siciliano trovano il loro punto di incontro proprio nella luce che, affettuosamente, definisce i contorni e ammorbidisce i ricordi, trasportando le immagini in una dimensione altra, che finisce per diventare lo spazio personale dell’esistere di ognuno di noi.
Christian Norberg-Schulz definisce il genius loci come lo spirito di un luogo e sottolinea che il compito dell’architetto è quello di creare luoghi significativi, che devono diventare “parti di un’unica e riconoscibile esperienza”. Queste stesse parole si possono riferire a Amelia Platone che, non come architetto, ma come pittrice, spesso proprio partendo dai luoghi ha dato vita a un percorso artistico che si è riverberato sul piano umano, fino a diventare esperienza appunto unica e riconoscibile. Osservare i suoi dipinti, infatti, equivale in primis a riconoscerla come persona, come donna presente alla sua realtà e al suo divenire, nella consapevolezza di essere parte integrante di un progetto di grande respiro che ha come protagonista l’umanità. Gli uomini e le donne da lei narrati sono protagonisti consapevoli della loro storia, segnata spesso dalla fatica del vivere, che è evidente nelle sue figure che sembrano portare sulle spalle le difficoltà del quotidiano, ma che, proprio nello sforzo coraggioso di superare queste difficoltà, riescono a sperimentare la sensazione autentica di vivere il loro presente.
La solidità e la rigorosa costruzione geometrica sottese ai suoi dipinti sono testimonianza dell’approccio visivo dell’artista che, nel corso del tempo, ha saputo sempre meglio delineare il proprio “modus exprimendi” affrancandosi con fedeltà dai suoi maestri, Casorati innanzitutto. Affrancarsi con fedeltà potrebbe sembrare, a prima vista, un ossimoro; in verità, la locuzione definisce lo sguardo attento di un’artista che si è sempre mantenuta fedele a se stessa e alla sua arte, pur continuando ad evolversi, in un percorso che l’ha portata da “un segno sensibile e una costruzione armonica”, come scrive Casorati nel 1953, a una libertà espressiva consapevole, resa evidente dai gesti espressivi dei suoi protagonisti, accompagnati da trame di colori che sembrano disfarsi grazie ai sapienti tocchi di pennello, in un luminismo prezioso di empatiche composizioni. Proprio il termine pathos, nella sua valenza etimologica dal greco πάσχειν “paschein”, letteralmente “soffrire” o “emozionarsi”, spiega bene il senso del suo crescere, teso alla realizzazione di opere in grado di suscitare emozioni nel riguardante. La sua pittura, infatti, è divenuta nel tempo calda e piena di slancio, lo stesso che ha connotato la sua relazione con la vita, anche nei momenti più difficili. La sua gamma cromatica raffinatissima e emotivamente densa ha reso i suoi quadri più commossi e intensi, in grado di comprendere l’animo umano in profondità e di leggerne le emozioni più intime per poi trasporle sulla tela: in un ideale “ritorno all’ordine” costruisce sacre rappresentazioni di dolente complessità, atte a divenire testimoni di un’indiscussa sensibilità compositiva e umana.
Federica Mingozzi
Maggio 2021